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I criteri per la determinazione della pena: l’art. 133 c.p.

L’art. 133 c.p. è rubricato “Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena” e così recita: “Nell’esercizio del potere discrezionale indicato nell’articolo precedente, il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta: 1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione; 2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa al reato; 3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa.      
Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta: 1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; 2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato; 3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; 4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo”.

La disposizione contenuta nell’art. 133 c.p. è una delle più importanti di tutto il codice penale perché ad essa è affidata la “funzione di garantire, ai fini di una più efficiente ed equilibrata giustizia, il processo di individualizzazione della pena” (Corte Costituzionale, sentenza n. 104 del 1968).

Ai fini della determinazione della pena da irrogare, nell’esercizio del suo potere discrezionale, il giudice è vincolato a due diversi parametri: la gravità del reato (comma 1) e la capacità a delinquere (comma 2), che devono essere desunti dagli indici elencati nello stesso art. 133 c.p.

Salvo casi eccezionali, ogni norma penale incriminatrice prevede un minimo ed un massimo di pena che costituiscono la c.d. cornice edittale. Il giudice, nel condannare l’autore di un illecito penale, è chiamato a scegliere la pena qualitativamente e quantitativamente più idonea al caso concreto: il suo potere discrezionale, però, non è senza limiti! (Se così non fosse, si porrebbe in aperto contrasto con il dettato costituzionale dell’art. 101, comma 2, Cost.). Dunque, a garanzia del corretto esercizio di questo potere, la legge, da un lato, prevede l’obbligo in capo al giudicante di indicare nella motivazione del provvedimento di condanna le ragioni della concreta determinazione e, dall’altro, individua precisi criteri per la definizione della pena in concreto, dettati proprio dall’art. 133 c.p.

I due parametri individuati dall’art. 133 c.p.

In primo luogo, la gravità del reato si valuta a partire “dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione”. Questo primo indice di valutazione attiene al disvalore dell’azione criminosa. Si pensi, ad esempio, al ruolo della durata della condotta tipica nei reati permanenti o alle particolari condizioni di clandestinità dell’arma nel caso di porto illegale.

Ai fini della valutazione circa la gravità del reato, si tiene conto, inoltre, della “gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa al reato”. Con riguardo a tale indice, quindi, si guarda  al bene giuridico leso (es. la vita nel caso dell’omicidio).

Il terzo e ultimo indice di valutazione della gravità del reato a disposizione del giudice è rappresentato “dalla intensità del dolo o dal grado della colpa”. Si tratta, dunque, del criterio che pone l’attenzione sull’elemento soggettivo del reato. Pertanto, il giudice è tenuto a valutare l’intensità del dolo, in virtù del grado di adesione volontaristica dell’agente al fatto criminoso (se si tratta di dolo intenzionale o dolo eventuale – art. 43 c.p.) e della complessità del processo deliberativo (la distinzione, dunque, tra dolo d’impeto, dolo di proposito, dolo di premeditazione – quest’ultimo figura come circostanza aggravante nell’omicidio e nelle lesioni personali (art. 577 c.p.), nonché del grado di consapevolezza del disvalore penale del fatto. Per quanto attiene, invece, al grado della colpa, rilevano il livello di previsione (colpa cosciente) o di prevedibilità dell’evento criminoso, nonché il grado di esigibilità del modello comportamentale dovuto dall’agente.

Il secondo comma dell’art. 133 c.p. indica quale criterio di valutazione agli effetti della pena la capacità a delinquere del reo. Sul punto, la dottrina si divide tra chi sostiene la funzione retributiva della pena e quindi considera tale capacità come l’attitudine del reo al crimine commesso, in grado di esprimere il livello di morale partecipazione e dunque di responsabilità, e chi propende per considerarla come l’attitudine del soggetto a commettere nuovi reati, ponendo al centro la funzione rieducativa della pena (come previsto dall’art. 27 co.3 Cost.).

Cosa si intende per “motivi a delinquere” e “carattere del reo”, così come richiamati dal punto 1) del secondo comma dell’art. 133 c.p.? I primi sarebbero rappresentati dagli impulsi di natura psichica che determinano l’agire dell’uomo; in ragione di questa lettura, parte della dottrina rileva delle criticità nella norma in esame, ritenendo che il giudice non abbia le competenze necessarie a valutare pulsioni non manifeste, attinenti alla sfera della psiche umana.      
L’espressione “carattere del reo”, invece, ha un ampio ambito di applicazione, che attiene alle diverse componenti della personalità umana. Anche sul punto, parte della dottrina ritiene che dovrebbero rilevare solo i profili innati della personalità e non le componenti etiche, ad esempio.

Inoltre, come previsto dalla norma in esame, al n. 2 del comma secondo, la valutazione del giudice diretta alla quantificazione della pena da irrogare prende in considerazione anche situazioni diverse da quelle inerenti al reato. In particolare, si fa riferimento ai precedenti giudiziari del reo e ai suoi eventuali precedenti penali, ma anche alle generiche manifestazioni di devianza (come alcolismo o tossicodipendenza).

Di rilievo, infine, sono la condotta contemporanea o susseguente al reato (n. 3) e le condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo (n. 4). Quanto alla condotta, rileva, ad esempio, una lunga esitazione prima del delitto quale indice di minor riprovevolezza dell’agire criminoso o, al contrario, un atteggiamento particolarmente cinico e pervicace nella perpetrazione di un delitto contro la persona o, ancora, la successiva collaborazione processuale del reo.

Infine, anche la determinazione della pena pecuniaria è vincolata ad alcuni criteri che il legislatore ha previsto all’art. 133 bis c.p. Il quantum di multa o di ammenda non può prescindere dalle condizioni economiche del reo. Il giudice, infatti, può aumentare fino al triplo l’ammontare della multa o dell’ammenda stabilita dalla legge ovvero diminuirla fino a un terzo “quando, per le condizioni economiche del reo, ritenga che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente gravosa”.

In conclusione, tenuto conto dei criteri sopra esposti di cui all’art. 133 c.p., il giudice, nell’esercizio del suo potere discrezionale, determina la pena da irrogare in concreto nel seguente modo:        
1. il giudice determina innanzitutto la pena base, fissandola tra il minimo e il massimo della pena edittale prevista per quel determinato reato; 
2. su tale pena base opera quindi gli aumenti o le diminuzioni conseguenti all’esistenza di circostanze aggravanti e/o attenuanti;   
3. sulla pena così aumentata calcola poi l’ulteriore aumento per l’eventuale recidiva;    
4. sulla pena così determinata calcola l’aumento conseguente all’eventuale continuazione ex art. 81 c.p.;      
5. sulla pena complessivamente ottenuta con le operazioni prima dette opera, infine, quell’aumento o diminuzione previsti dall’art. 133 bis c.p. 
In nessuna delle predette fasi il giudice potrà mai violare i limiti fissati dagli artt. 23-26 c.p.